ATTRAVERSO LA FOTOGRAFIA
FELICE CIRULLI PHOTOGRAPHER
GIANNI BERENGO GARDIN
VENEZIA SENZA TEMPO
VENEZIA SENZA TEMPO
Sono immagini quasi apocalittiche quelle che ritraggono Venezia durante l’eccezionale e storica marea del 12 novembre 2019. Sono immagini che stringono il cuore e fanno rabbia al pensiero di quanto si sarebbe potuto fare e ciò che non è stato ancora mai fatto per proteggere questo gioiello dell’umanità dalla forza delle intemperie. Eppure, questo è ciò che i nostri occhi sono costretti a vedere, oltre a ciò che le nostre orecchie devono sentire: il rassegnato e triste lamento dei veneziani, “superstiti” dell’incuria che ha frustrato la città negli ultimi decenni, in contrapposizione alle innumerevoli false promesse dei politici di turno. Quella che vediamo oggi è una Venezia lontanissima dalle romantiche interpretazioni fotografiche di Gianni Berengo Gardin, che di questa città ha fatto il filo conduttore della sua vita di fotografo. Per lui: “Venezia è una città qualunque, è quasi un’immagine della memoria che sopravvive e torna spesso” Venezia non è la città dove Gianni Berengo Gardin è nato, ma è il luogo dove egli ha vissuto tutta la sua infanzia e la sua giovinezza. Il padre, veneziano, aveva, vicino a Piazza San Marco, un laboratorio artigiano ed un negozio di vetri di Murano. È così che il nostro fotografo ha vissuto da dentro questa città, immerso nella sua natura fondamentale. Ha imparato a conoscerne gli umori, le gioie e le tristezze, ha potuto quindi raccontarne i momenti, quelli veri, vissuti attraverso i gesti e i volti dei veneziani, quando la città non era ancora diventata “preda” del turismo di massa. Il tempo scorre, anzi corre, e le cose passano. Ci sono realtà e situazioni che dovrebbero poter rimanere immutate, per non perdere il loro senso profondo e la loro bellezza originaria, per non cambiare, secondo uno schema che modifica distruggendo per poi ricostruire in peggio. Venezia è una città la cui bellezza è stata trasfigurata e sottomessa al dio del commercio e del turismo sfrenato. È un luogo la cui autenticità e delicatezza è stata negli anni falsificata dall’assoggettamento al meccanismo del profitto turistico. Guardando le fotografie che Gianni Berengo Gardin ha scattato nei tanti anni della sua carriera fotografica si coglie un aspetto importantissimo: la sua è la Venezia dei veneziani, quella che quasi non esiste più. Possiamo considerare le sue fotografie come dei malinconici e romantici reperti di una memoria sfuggente, che rischia di perdersi, o forse si è già persa, con le generazioni dei veneziani che non ci sono più, oppure ormai sono troppo anziani e troppo rassegnati per raccontarla, oppure troppo disincantati e disillusi per averne nostalgia. Gianni Berengo Gardin e Fulvio Roiter sono stati i “fotografi di Venezia”, ciascuno a suo modo, con il suo stile e la sua capacità di interpretare luoghi e persone. La Venezia narrata da Berengo Gardin è una città fatta di persone: di gente che si reca al lavoro, di innamorati, di famiglie, di amici e di spicciola quotidianità. La sua è una Venezia che non si mette in posa, ma che espone la sua presenza e la sua esistenza attraverso la banale normalità della gente che la popolano e percorrono i suoi canali, i suoi campi e le sue calli giorno dopo giorno. Il fotografo ci consegna delle immagini a volte sfocate, spesso sgranate ma che esistono in tutta la loro malinconica bellezza, facendoci apprezzare piazzette in cui giocano bambini, vaporetti colmi di pendolari, mamme che portano a scuola i loro figli, amanti che si baciano sotto i portici, donne anziane sedute fuori della porta di casa e ricche signore accomodate nello storico Caffè Florian, fattorini che consegnano merci con i loro carretti. È vero, non possiamo pretendere che il mondo rimanga immobile, che non evolva e che nulla cambi, sperando però che i cambiamenti siano possibilmente migliorativi, ma nel caso di Venezia viene quasi spontaneo poterla immaginare sempre uguale e immutata in eterno, come in un loop infinito che si perpetua soggiogando i nostri sensi e i nostri sentimenti. Le immagini di Berengo Gardin ci offrono questa sensazione che, seppur effimera, ci appaga e ci coinvolge. Anche lui, nel corso dei tanti anni durante i quali ha avuto modo di raccontare e documentare Venezia, ha descritto visivamente le acque alte che invadono Piazza San Marco, ma di ciò riuscendo a dare sempre un’immagine poetica e non voyeuristica. L’immagine di una città abituata da secoli a fare i conti con la natura del luogo in cui è stata edificata, e con l’acqua che occupa gli spazi che le vengono concessi, eppure sempre consapevole di poter riemergere e tornare a rivive e risplendere. La cronaca di quei giorni drammatici del novembre 2019 ci fa intuire quanto sia concreto e potenzialmente imminente il rischio di una città che affonda per sempre, e questa volta non per la insindacabile “volontà” della natura ma piuttosto per la inetta meschinità di chi avrebbe il potere di proteggere questo tesoro. |
FAN HO
IL POETA FOTOGRAFO
IL POETA FOTOGRAFO
Per fare buona fotografia occorre avere il dono della percezione visiva. Questa qualità permette di cogliere l’attimo in situazioni particolarmente interessanti, di captare momenti suggestivi oppure di descrivere emozioni, rapporti, relazioni e interazioni. Poi bisogna saper interpretare ed elaborare questi spunti e comporli all’interno del rettangolo formato dall’oculare della macchina fotografica. Tutto ciò deve accadere in pochi secondi, se non addirittura in una frazione di secondo. La luce è un “animale” da far passare attraverso la cruna dell’ago costituito dal diaframma dell’obiettivo. È sfuggente, a volte cattiva. L’ombra è il suo alter ego e ne costituisce l’opposto, la negazione. La luce ed il suo contrario devono essere “addomesticati” dal fotografo, prendendo così corpo e sostanza in una immagine che, da sola, può rappresentare il frutto della capacità creativa dell’autore, oppure della sua volontà di proporre un racconto o di comunicare il suo punto di vista rispetto alla realtà che sta vivendo. Fan Ho, fotografo ed anche regista cinematografico cinese, nato a Shanghai nel 1931, è riuscito a raggiungere i massimi livelli nell’arte fotografica grazie alle sue capacità intuitive nel leggere e plasmare le luci e le ombre adattandole così alla propria visione. Siamo abituati a considerare la “grande fotografia” come appannaggio quasi esclusivo dell’occidente. Quando si parla di grandi maestri si citano gli americani, i francesi, gli inglesi, i tedeschi, qualche volta anche gli italiani. Viene difficile pensare che anche l’oriente abbia consegnato alla storia molti talenti fotografici. Menzionato per molti anni come uno dei dieci migliori fotografi al mondo, Fan Ho è considerato, a ragione, il “Cartier-Bresson d’oriente”. Le sue opere sono diventate un punto di riferimento per i cultori della fotografia di strada. Il suo modo di osservare gli ambienti e di impressionarli sulla pellicola è preso ad esempio sia dai neofiti che dagli esperti. Vincitore di molti premi internazionali, le sue opere sono esposte in tanti musei. La sua passione per la fotografia si è sviluppata fin dalla giovanissima età di 14 anni grazie ad una macchina fotografica regalatagli dal padre. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1949, si trasferì con la famiglia ad Hong Kong. In questa città, che a seguito del conflitto mondiale prima, e della guerra civile cinese poi, aveva visto aumentare enormemente la sua popolazione a causa delle migrazioni di profughi dalla vicina Cina, egli cominciò a raccontare per immagini le vite dei suoi concittadini, descrivendoli nella loro quotidiana situazione: nei mercati, nelle strade, sulle barche. Uomini e donne intenti a lavorare o a spostarsi, bambini presi dai loro giochi, il tutto in un contesto urbano ancora arcaico che però stava velocemente ed inesorabilmente evolvendo verso la grande metropoli moderna e caotica che è oggi. Voleva essere uno scrittore. La macchina fotografica, sempre la stessa, e la pellicola sono diventati la sua penna e il suo quaderno. È stato descritto come “il poeta con la macchina fotografica”. Le sue immagini sono contemporaneamente datate e moderne, quindi senza tempo, come i versi di un poeta; sono essenziali, a volte scarne, ma ricche di simbologie. I suoi sono scatti non si limitano a rappresentare una circostanza, ma la raccontano e la fanno vivere drammaticamente attraverso un sottile equilibrio di luci ed ombre popolato dai suoi soggetti. Come quella del grande maestro Henri Cartier-Bresson, la sua è una fotografia fatta di pazienza e di costante osservazione, nell’attesa che ambienti e soggetti si uniscano determinando così la “scena”. Il resto è una questione di posizione e di luce, di scelta di tempo e di interpretazione creativa. Lui è uno spettatore che osserva il teatro della vita, cioè la strada, fissandone sulla pellicola i momenti salienti e creando immagini dalle connotazioni quasi surreali ma ricche di una forte capacità descrittiva. “… mi piaceva quella distanza, non troppo vicina, non troppo lontana…” Dalla fotografia alla regia cinematografica il passo è breve. E così per molti anni Fan Ho si è dedicato alla realizzazione di film che in qualche modo costituiscono il completamento della sua visione immaginifica della realtà e della sua maniera di raccontare il suo universo. La sua è una cronaca della vita quotidiana di luoghi in evoluzione verso importanti cambiamenti politici ed economici. Le sue “visioni” hanno il sapore di esperimenti creativi. Sono composizioni visionarie, rese surreali dalle angolazioni che alterano le prospettive, semplificate e drammatizzate dall’uso del bianco e nero. In molte delle sue fotografie i soggetti sembrano come “sospesi” in un “movimento statico”. “Il bianco e nero è il mezzo migliore per esprimere la mia visione del mondo. Credo che il colore sia meglio lasciarlo ai pittori, possono farlo meglio.” La maggior parte delle fotografie da lui scattate sono ambientate nella città di Hong Kong o nelle sue propaggini. Molti dei luoghi descritti nelle sue immagini oggi non esistono più, inghiottiti dal cemento dei grattacieli. Le persone sono cambiate e con loro le abitudini di vita ed i gesti quotidiani. Queste immagini, quindi, costituiscono anche una memoria storica di quella città, ne rappresentano le radici: vicoli e mercati con la loro umanità intenta nelle faccende quotidiane, strade qualche volta vuote o poco frequentate, altre volte percorse da folle e da carretti e biciclette. Strade e vicoli che oggi sono arterie pulsanti intasate dal traffico automobilistico ed impregnate di smog. Le sue fotografie formano un percorso cronologico, sono una macchina del tempo. Queste immagini ci conducono attraverso la trasformazione del contesto urbano, cosa avvenuta contemporaneamente in molte città del lontano oriente. Nuclei urbani che fungono da catalizzatore per le grandi masse provenienti dalle povere campagne. La migrazione è un fatto intrinseco nella natura umana. L’autore ha saputo farci partecipi di questo passaggio che si articola dai primi anni ’50 alla fine degli anni ’60, cioè gli anni che hanno formato le basi delle nostre società moderne. Società oggi, per alcuni versi, prive di umanità. |
DOROTHEA LANGE
UN FARO SULLA SOFFERENZA
UN FARO SULLA SOFFERENZA
Spesso il nome di un grande fotografo è legato ad un’icona, rappresentata da una delle tante immagini riprese, quella che meglio di tutte incarna il suo talento e rappresenta il modo in cui quel fotografo ha voluto dare corpo alla sua ispirazione ed alla sua capacità interpretativa. Nel caso di Dorothea Lange la foto che riassume al meglio l’impegno che lei ha voluto ricoprire durante la sua attività professionale è quella descritta come “Migrant Mother”, un’immagine che rappresenta in maniera forte ed emotivamente toccante la grave situazione di indigenza e di fame nella quale versavano grandi fasce di popolazione statunitense. Ciò attraverso gli occhi tristi e rassegnati ma pieni di dignità di una madre che deve sfamare sette figli negli anni successivi allo scoppio della Grande Depressione del 1929. Una foto-denuncia, come tante altre da lei scattate, che aveva come compito quello di documentare, per scuotere la coscienza di coloro che potevano e dovevano fare qualcosa per sollevare le sorti delle persone che erano state ferocemente aggredite dalla crisi economica. La Lange, insieme a Walker Evans, è conosciuta come la fotografa americana che ha raccontato, con impegno e passione, i terribili anni nei quali, in seguito al crollo finanziario di Wall Street nel 1929, gli Stati Uniti ed il mondo intero conobbero la devastazione di una terribile recessione economica. La fotografa è nata a Hoboken, nel New Jersey, nel 1895, figlia di immigrati tedeschi. Pur malata di poliomielite fin dall’età di 7 anni e quindi parzialmente invalida, rinunciò al lavoro di insegnante e, da poco passati i venti anni, si impegnò nell’attività di fotografa presso uno studio della sua città natale. Ma già nel 1919 emigrò a San Francisco, dove intraprese una attività autonoma, aprendo un suo studio personale come ritrattista. Il punto di svolta arrivò all’indomani dello scoppio della grande crisi, quando decise di dedicarsi a dimostrare lo stato di povertà e di disperazione della popolazione americana devastata dal crollo dell’economia finanziaria, manifatturiera ed agricola. Tra i suoi scatti più famosi, oltre a quello citato in precedenza, spicca l’immagine chiamata “White Angel Breadline”: in questa fotografia un uomo che tiene in mano una tazza di latta in mezzo ad una folla di persone disoccupate in attesa di aiuti rappresenta il grande dramma della fame conseguente alla mancanza di lavoro tra quelli che prima erano stati i ceti della media borghesia americana. Mentre già da qualche anno si impegnava a dare un volto a disoccupati, senza tetto ed indigenti in California, nel 1935 il Governo americano le commissionò l’incaricò di documentare le conseguenze della crisi sulla popolazione che ancora versava in stato di povertà, chiedendole di raccogliere le immagini che potessero certificare gli effetti della recessione sulle fasce sociali che più di tutte soffrivano fame e povertà a seguito della perdita del lavoro e che per questo motivo erano costrette a spostarsi da un luogo all’altro della nazione alla ricerca di una soluzione al proprio stato di miseria. Oltre che per il governo, fece servizi anche per la rivista Life e Aperture realizzando reportage anche in Africa, Sud America e Medio Oriente. È considerata tutt’oggi la più grande fotografa documentarista d’America. La sua sensibilità la portò ad esplorare, riconoscendoli istintivamente, i luoghi, soprattutto le aree rurali, dove la povertà aveva fatto i danni maggiori e dove le persone, pur cercando di conservare intatta la loro dignità, soffrivano la fame. Riuscì ad accendere un grande riflettore su questa umanità che lottava ogni giorno nel tentativo e nella speranza di assicurare un pasto ai propri figli. L’intensità delle sue realizzazioni fotografiche, unita alla sua onestà interpretativa, riesce a determinare un coinvolgimento emotivo ed un senso di sincera compassione per i soggetti ripresi. È morta a San Francisco all’età di 70 anni, colpita da un cancro. Il patrimonio di immagini che la Lange ci ha lasciato costituisce un’enorme eredità di materiale storiografico e sociologico che descrive gli effetti della condizione dell’individuo in situazioni di precarietà economica e di ingiustizia sociale. La sua vita di fotografa fu dedicata esclusivamente alla narrazione della povertà e della sofferenza delle persone, nel tentativo di dare visibilità a quelle circostanze che troppo spesso rimangono invisibili agli occhi dei tanti. |
DAVID HURN
COGLIERE LA VITA DAVANTI ALL'OBIETTIVO
COGLIERE LA VITA DAVANTI ALL'OBIETTIVO
Per fare buona fotografia occorre mettere in equilibrio tra di loro una serie di elementi, sia tecnici che di sensibilità e di intuito, David Hurn definisce questo come un processo scientifico in cui poco, quasi nulla, dovrebbe essere lasciato al caso. Hurn è nato nel 1934 in Inghilterra ed ha vissuto la sua infanzia a Cardiff nel Galles. Figlio di un ufficiale dell’esercito inglese, essendo dislessico, non ha potuto aspirare alla carriera medico-veterinaria cui ambiva ma, dopo aver frequentato, con poco attaccamento, l’accademia militare, riesce a disimpegnarsi ed a trovare il suo percorso attraverso la fotografia, cosa che diventa per lui strumento di evasione dalle consuetudini e di conoscenza del mondo reale e del vivere quotidiano, oltre che di vittoria sulla sua timidezza. Le occasioni che la vita concede, viste “con gli occhi del giorno dopo”, possono apparire spesso surreali o impensabili e alcune volte ridicole, oppure, come nel caso di David, possono costituire i perni sui quali l’esistenza trova i suoi punti di svolta. Sfogliando casualmente una rivista di fotogiornalismo (Picture Post) che contiene un reportage sulla Russia di Cartier Bresson, egli ha un’illuminazione, capisce di colpo ciò che vuole fare “da grande”. Comprende che il suo approccio con il mondo della fotografia dovrà essere improntato alla ricerca e documentazione della realtà, così come è ed appare, nella sua “banale bellezza”. Lo scatto di Bresson che descrive un ufficiale russo che accompagna la moglie in un grande magazzino per acquistare un cappello, suscita nella sua mente il concetto di forza evocativa che può scaturire dalla fotografia come semplice racconto di un momento di vita, di una situazione di assoluta normalità ma che, proprio per questo, sa descrivere la genuinità dei gesti quotidiani elevandoli a qualcosa di sublime quando questi diventano ricordi incorruttibili e facilmente riconoscibili. Secondo lui la fotografia è osservazione dell’esistente. Egli, inoltre, è sostenitore dell’idea che anche la fotografia, come la pittura, debba poter contare sul “riconoscimento dell’autore”, e ciò può avvenire solo grazie al fatto che il fotografo riesca ad affermare un suo stile, una sua impronta, una sua unicità. Ha detto: “La vita, mentre si svolge davanti a un obiettivo, è così piena di complessità, di meraviglia e di sorprese, che trovo inutile creare nuove realtà” Lavora per qualche tempo presso un’agenzia fotografica di Londra ma nel 1956, attratto dalla nascente rivoluzione ungherese, si reca a Budapest in autostop, con la precisa volontà di realizzare un reportage, come freelance, sulla ribellione del popolo ungherese all’invasione russa. Lì conosce alcuni collaboratori della rivista Life, testata alla quale successivamente invia i suoi negativi. Diventa così di colpo uno dei protagonisti del fotogiornalismo dei suoi tempi. Le sue immagini di quell’evento saranno pubblicate nelle più importanti riviste di quegli anni. È così che il suo ingresso nel mondo della fotografia parte dai piani più alti! È l’inizio di un proficuo lavoro di collaborazione con la rivista Life che lo porta a vivere da protagonista e di diritto l’ambiente del reportage fotografico. Documenta in seguito, tra le altre cose, il mondo dei bassifondi londinesi, il sordido contesto dei tossicodipendenti, della prostituzione, dei locali equivoci e del mondo gay. Sul finire degli anni ’50 la vita gli offre un’altra occasione, anche in questo caso fortuitamente, con l’incontro di Sergio Larrain mentre sta fotografando turisti in Trafalgar Square. Larrain si complimenta con lui per l’intensità con la quale lo vede fotografare, lo incita a perseguire tenacemente la sua modalità espressiva, lo introduce successivamente nella “famiglia Magnum” della quale entrerà a far parte compiutamente nel 1965. Un buon fotografo deve essere armato oltre che della fotocamera anche di tanta curiosità. Le opportunità devono essere prima ricercate e poi raccolte. La memoria gioca un ruolo importante, il ricordo di esperienze vissute può rappresentare un appiglio importante per saper capire ed interpretare situazioni apparentemente diverse ma che in realtà sono delle repliche di cose già accadute. L’esperienza serve per trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Ovviamente non gli sfugge anche l’opportunità di dedicarsi alla fotografia commerciale e di moda, ritraendo anche attori e attrici di grande richiamo. Documenterà un periodo della storia dei Beatles, seguendoli nella realizzazione di un film a loro dedicato e così producendo immagini che sono considerate tra le più belle esistenti della band inglese, ma soprattutto raccontando ciò che essi erano anche nella loro normalità, nel loro approccio con il lavoro e con l’ambiente che li circondava, nel loro “giocare” a fare i divi. In particolare, ha saputo descrivere con la sua grande intuizione il mondo dei loro entusiasti fans: l’enfasi dei gesti, le folle impazzite, e tanto altro ancora. Nel 1972 torna a vivere in Galles con uno sguardo affettuoso e personale sugli aspetti culturali e di vita quotidiana della “sua” gente. Fonda nel 1973 quella che oggi è un’importante scuola di fotografia a Newport. Tra le sue affermazioni figura questo suo “ambizioso” proposito: "realizzare foto fondamentalmente noiose, foto in cui le uniche cose interessanti sono i piccoli dettagli e i gesti." Ebbene, le sue fotografie ci regalano invece, tra mille altri spunti, un vivido spaccato della società inglese nel trentennio ‘50-’70 che ci permette di cogliere gli aspetti più genuini di un mondo in piena corsa verso la modernità dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale. |
GARRY WINOGRAND
LE DONNE SONO BELLE
LE DONNE SONO BELLE
New York è la città dove Garry Winogrand è nato nel gennaio 1928 e della quale ha percorso le strade, oltre a quelle di Los Angeles, per donarci la sua visione, sempre molto realistica, degli ambienti e dei momenti di vita che hanno fatto di queste metropoli delle icone di modernità e di sviluppo. Purtroppo, alla giovane età di 56 anni, nel 1984, ci ha lasciati orfani della sua arte fotografica a causa di un cancro. Sposando lo stile di Cartier Bresson, alla ricerca dell’attimo fuggente, ha voluto interpretare in maniera scevra da schermi e senza preventiva progettazione il mondo della reale vita americana mentre questa scorreva nelle “arterie” delle sue strade cittadine e cosmopolite, traendo pure motivazioni dalla fotografia sociale di Walker Evans e Robert Frank. A partire dal 1960, percorrendo i luoghi più frequentati delle città americane, si è dedicato ad impressionare le sue pellicole con scene di vita quotidiana, con l’obiettivo di raccontarne le peculiarità e descrivere la società americana urbana di quei tempi. Con le sue fotografie, esposte via via nei luoghi più prestigiosi, ha collezionato velocemente premi ed ottenuto numerosi riconoscimenti. Sulla falsariga della grande, ed a lui contemporanea, Vivian Mayer, ha lasciato alla sua morte un numero impressionante di pellicole inedite (circa 300 mila) che sono state in parte pubblicate postume. Winogrand è stato sempre maggiormente interessato a fotografare che ad ottenere riconoscimenti e classificazioni, si dice che nella sua carriera abbia scattato complessivamente quasi cinque milioni di immagini alla ricerca di situazioni e persone che, secondo lui, potessero descrivere l’ambiente ed il modo di vivere dei cittadini americani. La sua è stata l’irrequietezza di chi temeva di perdere delle occasioni. Faceva fatica a stare lontano dalla strada. Si stima che nella sua breve ma intensa vita di fotografo scattò ad una media di 450 fotografie al giorno (12 rullini). Si potrebbe essere tentati di pensare che sia facile ottenere delle immagini interessanti con una frequenza di scatto di questa intensità. Bisogna però fare mente locale al fatto che al giorno d’oggi siamo abituati a pensare alla relativa semplicità del digitale, mentre lui scattava con pellicola e quindi doveva necessariamente “vedere l’immagine” prima dello scatto. È stato uno dei maggiori interpreti della street photography, un esponente eccezionale di questo modo di fotografare e di vivere questa passione sul campo. Ha affermato che un fotografo dovrebbe attendere due anni prima di sviluppare le foto scattate in modo da non essere condizionato dalle “emozioni” del momento riguardo alla loro valutazione estetica e soprattutto interpretativa. Visto il ritmo con il quale scattava e la numerosità delle foto impresse sulle sue pellicole, si può pensare che non sia mai riuscito materialmente a stare dietro alla stessa sua ponderosa produzione. Perdendosi nelle strade della New York degli anni 60 e 70 egli ha cercato di raccontare i momenti della protesta giovanile e dei tentativi di emancipazione delle donne. Con il libro “Women are beautiful” (edito nel 1975) ha documentato la voglia delle donne di uscire dagli stereotipi che le “incastravano” in un immaginario creato dal mondo maschile. La loro presenza alle manifestazioni e nel mondo del lavoro, l’indossare minigonne e bikini, il partecipare alle feste, costituiva a quei tempi una strisciante protesta sociale che avrebbe permesso man mano al gentil sesso di ritagliarsi un ruolo sempre più importante all’interno di un mondo costruito a misura dei maschi. La voglia di libertà che serpeggiava tra le giovani donne di quel periodo è stata efficacemente rappresentata dagli scatti di Winogrand che le ha ritratte durante le loro passeggiate nei parchi o per le strade di New York, mentre protestavano oppure ballavano, mentre mangiavano un gelato, ma sempre con il loro piglio fiero e combattivo, consapevoli della loro dignità. Erano tutte bellissime le sue donne, ricche di una bellezza interiore, la bellezza di chi conosce il suo valore. Finalmente l’anticonformismo che rompeva i canoni imposti da una società maschilista e puritana cominciava a fare breccia nei costumi sociali ed il nostro fotografo era lì, pronto a darne testimonianza con le sue immagini. Davanti all’obiettivo della sua macchina fotografica c’erano ragazze con gonne allora impensabili per la loro esiguità, c’erano donne che indossavano abiti aderenti e sexy, c’erano femmine che si misuravano con atteggiamenti maliziosi e sensuali. Attraverso l’imperfezione dei suoi scatti Winogrand raccontava la vita esattamente come appariva davanti ai suoi occhi: “A me non importa fare belle fotografie. Ci sono fotografi che pensano già a come la loro fotografia sarà stampata in un libro. A me interessa quello che c'è nell'inquadratura”. Insieme ad altri esponenti della Beat Generation, è stato allora aspramente criticato. Il suo tentativo di descrivere l’emancipazione femminile veniva additato come voyeurismo, mentre il suo lavoro è invece da considerare come un atto d’amore verso il sesso femminile e la sua necessaria ricerca di libertà. Osservando la cronologia dei suoi scatti si possono percepire i veloci cambiamenti della società americana di quel tempo. Il suo è stato un viaggio antropologico all’interno di questo ambiente e modello metropolitano, modello e schema che sono poi stati esportati in buona parte delle grandi metropoli del mondo a riprova di come la cultura e i costumi americani costituiscano spesso e quasi sempre un modello da imitare per altre società del globo. |
ROBERT FRANK
L’AMERICA FOTOGRAFATA DA UNO SVIZZERO
L’AMERICA FOTOGRAFATA DA UNO SVIZZERO
Robert Frank è nato in Svizzera nel 1924, da una famiglia di origini ebraiche. Si trasferì negli Stati Uniti nel 1947. La sua attività lavorativa si sviluppò tutta nel campo della fotografia, all’inizio come assistente di studio e poi come fotografo freelance dedicandosi prima alla fotografia di moda e successivamente cercando di approcciare il settore del fotogiornalismo. In questa veste effettuò diversi viaggi in varie zone del Sud America e dell’Europa. La svolta avvenne nel 1955 quando, a seguito dell’ottenimento di una borsa di studio dalla Fondazione Guggenheim, cominciò a realizzare il suo “sogno fotografico” THE AMERICANS che fu pubblicato prima in Francia e successivamente negli Stati Uniti. Percorrendo in lungo e in largo il territorio degli Stati Uniti con la sua macchina, impresse sulle sue pellicole gli ambienti, i luoghi e i volti dell’America di quel tempo. Solo 83 immagini in bianco e nero delle migliaia di fotografie scattate, finirono sul suo libro al quale Jack Kerouac fece la prefazione: “…Dopo che hai visto quelle immagini finisci per non sapere se sia più triste un jukebox o una bara. Perché lui fotografa ininterrottamente bare e jukebox – e i misteri dell’intermediazione, come il prete negro accucciato chissà perché sotto la pancia liquida e lucente del Mississippi a Baton Rouge, all’imbrunire o alle prime luci dell’alba, con una croce bianca di neve e i suoi incantesimi segreti, mai sentiti fuori del bayou. Oppure quella sedia in un caffè, col sole che entra dalla finestra e la avvolge di un alone sacro. Non avevo mai pensato che fosse possibile fissare tutto questo sulla pellicola e ancora meno che le parole potessero descriverne la meravigliosa complessità visiva…” Il suo stile, ancora prima della sua consacrazione alla storia della fotografia era già differente rispetto al cliché dell’epoca: le sue erano fotografie “imperfette” e “irrituali”, fuori dai canoni estetici consueti: soggetti mossi e sfocati, tagli dall’apparenza casuale. La sua fu definita una “fotografia sciatta”: fu questo il motivo per cui non fu accolto dall’Agenzia Magnum che invece predicava l’idea di una fotografia tecnicamente impeccabile e ben definita, Capa considerava le sue foto “troppo orizzontali per riviste verticali”. Frank disse:” le mie foto non hanno un inizio e una fine. Stanno nel mezzo” “Chi non ama queste immagini, non ama la poesia, capito? Se non ami la poesia va’ a casa e guarda la tv con i cowboy col cappello da cowboy e i poveri cavalli gentili che li sopportano”. Questo scrisse Jack Kerouac a proposito di The Americans alla fine degli anni cinquanta. Le sue foto erano una sfida alle regole formali utilizzate fino a quel momento. Le sue immagini rappresentavano allora, e continuano a raccontare, uno spaccato assolutamente oggettivo, ma non per questo privo di enfasi emotiva, dell’America degli anni 50, erano uno specchio nel quale gli americani non volevano guardarsi. Da questo lavoro uscì l’immagine di una nazione triste, malinconica, difficile e divisa. L’eroismo comunicato attraverso la finzione cinematografica e televisiva impallidiva di fronte alla cruda quotidianità descritta dai suoi scatti. Disse: “Il bianco e il nero sono i colori della fotografia. Per me simboleggiano l’alternarsi di speranza e disperazione a cui l’umanità è da sempre sottoposta. ” Il suo libro segnò uno spartiacque nella definizione del ruolo della fotografia di reportage e del modo di interpretarla. La critica inizialmente lo stroncò, sia per motivazioni culturali (la sua distanza dai canoni estetici dell’epoca e la sua vicinanza a modelli sociali controcorrente) che per motivazioni politiche (venne sospettato di essere comunista). L’America raccontata da Frank è un’America privata del “suo sogno” che si vede sprofondare nella sua reale condizione fatta di tensioni razziste, di divario fra ceti ricchi ed agiati e ceti poveri e sottratti alla serenità e alla felicità. Attraverso i suoi bianchi e neri imperfetti, sfocati, storti, le sue ombre cupe e vuote e le sue luci bruciate ci regala la sua “visione” spontanea e istintiva di un mondo reale ma “nascosto sotto il tappeto” del consumismo sfrenato, della bellezza estetica e del benessere riservato ai fortunati. La bellezza delle sue immagini sta nell’incompiutezza del racconto visivo, nel voler lasciare all’osservatore il compito di completare il quadro secondo la sua capacità di immaginare ciò che non si vede. La sua dedizione alla fotografia cessò negli anni sessanta quando volle dedicarsi alla cinematografia, ma con scarsi risultati. Tornò alla fotografia negli anni 70 ma cambiando completamente stile e finalità. La sua vita familiare fu funestata dalla prematura morte di entrambi i suoi figli. Disse: “Credo che alla gente piaccia il libro perché mostra loro quello che pensano, ma di cui non parlano” |
DAVID ALAN HARVEY
IMMAGINI DI ORDINARIA UMANITA'
IMMAGINI DI ORDINARIA UMANITA'
L’immaginario collettivo riguardo alla fotografia è che questa, per piacere, debba contenere necessariamente qualcosa di sensazionale: un ritratto deve essere esteticamente perfetto ed accattivante, un paesaggio deve contenere elementi tali da renderlo unico e quasi irripetibile, una foto di guerra o di cronaca deve far emergere violenza e crudeltà. Tutto ciò presuppone l’esistenza di un soggetto e di una interpretazione utile al messaggio che si vuole trasmettere. David Alan Harvey invece parte dal presupposto che possa essere la fotografia stessa il soggetto del lavoro del fotografo e quindi il fine ultimo. Egli arriva ad affermare che “… le fotografie non devono per forza comunicare un grande concetto, possono anche semplicemente esistere.” Quella di David Alan Harvey, nato nel 1944 a San Francisco e cresciuto in Virginia, è una storia che affascina per via della sequenza delle varie tappe che hanno portato quest’uomo a diventare una delle più grandi firme, ancora viventi, della fotografia contemporanea. La poliomielite, contratta all’età di 6 anni lo costringe in cura di isolamento per diverso tempo, periodo durante il quale David, immobilizzato dalla malattia, legge libri e riviste che, con grande costanza, gli forniscono la mamma e la nonna. Tanto che quando compie 11 anni riceve la sua prima macchina fotografica (una Leica usata) e comincia a fotografare i membri della sua famiglia. La sua passione per la cultura e per l’ambiente sociale lo porteranno a studiare storia dell’arte e a laurearsi in giornalismo. All’età di 23 anni compie il primo passo nella direzione del reportage sociale raccontando per immagini la vita di una comune famiglia di colore in un quartiere di Norfolk, in Virginia. La sua vuole essere una denuncia al contrario: nel pieno del periodo storico nel quale vengono al pettine i nodi della questione razziale negli Stati Uniti, lui decide di far emergere il problema raccontandolo in chiave positiva. “Volevo mostrare come si stia da quelle parti, perché i bianchi che vivono nel mio quartiere a Virginia Beach non hanno idea di cosa significhi. E, subito, ho incontrato una famiglia e sono rimasto con loro. Dormivo sul loro divano e andavo a scuola col loro bambino…”. Enfatizzando la normalità e la quotidianità di questa gente, il fotografo espone le differenze ma anche le similitudini, le rende palesi e leggibili, costringe il pubblico ad aprire gli occhi e la mente. Pubblica un libro con le sue risorse, “Tell it like it is”, con il cui ricavato aiuta la chiesa locale a procurare cibo e vestiti per i poveri del quartiere. Questo rimarrà uno dei pochi lavori fatti in bianco e nero, perché successivamente Alan si “costituirà” al colore come protagonista ed elemento fondante dei suoi scatti. Principio in linea con la sua aspirazione di fare della fotografia stessa la protagonista della sua visione narrativa. La sua ispirazione fotografica prende spunto dalla conoscenza della pittura e, partendo dal presupposto che la fotografia può “creare qualcosa dal nulla”, conclude che il suo soggetto possa essere semplicemente ciò che esiste e sta di fronte al fotografo. Ciò comporta che le fotografie possono comunicare naturalmente per il fatto stesso di essere immagine, senza necessariamente contenere concetti. Pur essendo partito da un approccio di tipo giornalistico, rinunciando all’idea del reportage come una sorta di letteratura fotografica, egli finisce per convincersi che storie e racconti possano esistere come semplice conseguenza di un insieme di immagini. Dal 1973 lavora per molti anni come fotografo per il National Geographic viaggiando in tutto il mondo per realizzare i lavori che gli vengono via via commissionati. Il suo “curriculum” si riempie di reportages da tutto il mondo ma soprattutto dall’America Centrale dove il fotografo trova la “cifra” della sua creatività e del suo modo di scoprire la realtà di questi paesi pieni di contraddizioni e di sfumature sia culturali che visive, ricchi di una umanità contaminata dal susseguirsi, dal sovrapporsi e dal mescolarsi di genti di provenienze, religioni ed etnie differenti e differenziate. Nel 1993 inizia a lavorare per Magnum Photos, del quale diventa membro effettivo nel 1997. Attraverso la collaborazione con la famosa agenzia trova nuovi stimoli soprattutto grazie alla grande indipendenza di cui gode e al riconoscimento delle sue capacità di autore fotografico. In questo contesto la conoscenza diretta dei grandi fotografi facenti parte dell’agenzia diventa un forte impulso alla sua visione e alla sua creatività. Con Magnum viaggia in Cile, Messico, Cuba, Vietnam e ancora nei suoi Stati Uniti. In tutti questi luoghi il suo obiettivo è quello di cogliere le persone nel loro quotidiano senza però rinunciare alla descrizione dell’essenza dei luoghi nei quali queste persone conducono la loro vita. Con il suo libro “Divided Soul” il fotografo riesce a raccontare al meglio la sua grande affinità con il mondo latino, con i suoi colori e le sue atmosfere, con la sua anima spesso sordidamente triste ancorché celata da grandi sorrisi. La sua è una ricerca antropologica nella quale si delineano scenografie naturali per il semplice effetto della presenza di persone raffigurate nel loro ambiente quotidiano. La sua è una fotografia “sporca”, che non tiene conto dei criteri compositivi classici e della pulizia di linee ed elementi. All’interno delle sue immagini i soggetti ed i colori sono complementari alla creazione visiva che il fotografo vuole ottenere. Ciò che può sembrare approssimazione è invece una voluta differenziazione tra soggetti fermi ed elementi in movimento, tra colori saturi e luci abbaglianti alternate ad ombre pesanti. David Alan Harvey ha fatto e continua a fare della fotografia la sua vita, attualmente fotografa ancora ed insegna la sua arte ai giovani fotografi di domani. |
BRUNO BARBEY
CERCANDO I FIORI NEL DESERTO
CERCANDO I FIORI NEL DESERTO
Correvano i primi anni ’60, l’Italia, come tutto il mondo, era da poco tempo uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, la nazione cominciava ad emergere dalle macerie ed a costruire un nuovo futuro economico, ricco di prospettive ma anche di molte contraddizioni e di contrasti che ancora rimangono irrisolti. Il Nord metteva le basi per un processo di industrializzazione che avrebbe portato il nostro paese a diventare una delle nazioni più ricche del mondo, il Sud costituiva il bacino di manodopera a basso costo per il processo di modernizzazione e di sviluppo. Bruno Barbey, un francese nato in Marocco nel 1941, inizia la sua “avventura” nel mondo della fotografia con la precisa volontà di raccontare ed interpretare, alla giovanissima età di 20 anni, questa nostra Italia che sta ripartendo, ma non ne vuole documentare l’aspetto sociale, bensì la ricchezza umana, attraverso volti e situazioni di strada, mediante l’uso già consapevole della composizione fotografica finalizzata a far emergere storie e narrazioni quasi teatrali. Si potrebbe persino pensare che per lui sia stato facile rappresentare, come attori di uno spettacolo quotidiano, un popolo, specialmente quello del Sud, che in gran parte ha fatto e continua a fare della “finzione scenica” il suo stile sociale e comportamentale, nel bene e nel male. La sua narrazione fotografica è vera, sentita, originale e mai costruita a tavolino. Risponde al suo bisogno di farsi sedurre da una terra che lo affascina per la sua generosa spontaneità e per la sua “arte del vivere” sempre ricca di sfumature fantasiose. Le scene principali dei suoi scatti sono Napoli, Roma, Firenze, Milano. Il suo è un viaggio spinto dall’affetto che prova per la gente che incontra e per le persone che vorrebbe ulteriormente incontrare. È giovane ma già talentuoso, tanto che il suo lavoro sugli Italiani viene scoperto ed incoraggiato da un editore francese che lo stimola a proseguire su questo percorso. Nell’arco di quasi quattro anni avrà attraversato in lungo e in largo la penisola, raccogliendo il materiale che poi confluirà nel suo libro “Les Italiens” (edito molto più tardi nel 2002) con il quale, sulla falsariga di quanto fatto a livello cinematografico da Pasolini, Fellini, Visconti ed altri neorealisti, disegna un affresco fotografico della società italiana di quegli anni. Un romanzo per immagini, pieno di vita e di passioni, di momenti ludici e situazioni serie. Il suo sguardo però appare sempre leggero e disincantato, quasi finalizzato a sdrammatizzare e a dare, di noi italiani, una visione serena e ottimistica. Ovviamente le capacità di fotografo lo portano a farsi notare in alto tanto che nel 1968 viene a far parte della grande agenzia di Magnum Photo. È così che prende corpo la sua attività di fotogiornalista che lo porterà a ricevere incarichi sempre più impegnativi per documentare conflitti sociali, guerre civili e situazioni di crisi in tutto il mondo. Le rivolte studentesche in Francia, nel ’68, costituiscono per lui una grande possibilità di esperienza lavorando sul campo e dall’interno, vivendo insieme agli studenti in rivolta i momenti più drammatici di queste proteste, in molti casi anche violente. Se ne fa quasi portavoce. Poi il suo percorso professionale lo porta su quasi tutti i fronti caldi della seconda metà del Novecento: la guerra civile nigeriana di fine anni 60, i vari conflitti israelo-palestinesi, il dramma delle carestie in vari paesi dell’Asia e dell’Africa, la resistenza curda nell’Iraq di Saddam Hussein ed ancora la Guerra del Golfo nel 1991, ed altre situazioni ancora. Ma lui non si considera un fotografo di guerra, anzi dalle circostanze di conflitto cerca di cogliere quel germoglio di positività che quasi sempre esiste e deve essere annaffiato perché possa fiorire. Dice: “Io sono attratto soprattutto dalla bellezza, dall’umanità, da lato positivo. Non amo immergermi nelle dimensioni sordide. Preferisco afferrare un’ombra fugace su un bel colore che fotografare una scena di guerra. Rifiuto l’estetica della follia o dell’orrore.” È così che Bruno Barbey cerca e trova i “fiori nel deserto” per poterli consegnare agli occhi del mondo. Negli ultimi anni, dopo aver percorso il globo in lungo e in largo, si è voluto dedicare alla sua terra natale, il Marocco. Di questo paese lui sta tuttora interpretando, attraverso la sua arte fotografica, la ricchezza dei colori e delle situazioni esotiche, ricche di fascino e di emozionanti sensazioni visive. Il Marocco è la terra che lo ha cresciuto nella sua infanzia e adolescenza, è la terra che ha impresso nella sua mente quella attitudine istintiva a “leggere” il mondo tra le pieghe di ombre e luci, tra le suggestioni dei colori e la cruda bellezza dei bianchi e dei neri inframezzati dai grigi. |
ALEX WEBB
VIAGGIANDO NEL COLORE
VIAGGIANDO NEL COLORE
Quando parliamo di fotografia di strada pensiamo solitamente ai grandi maestri ormai passati a miglior vita, a coloro che hanno fatto nascere questo genere fotografico e lo hanno interpretato, chi con la sua passione per l’umanità, chi con la sua intuizione scenografica oppure con la capacità di cogliere l’attimo decisivo. Il genere si accompagna solitamente ad una visione in bianco e nero della realtà fotografata, quasi a voler “esorcizzare” il contesto da elementi estranei alla natura della scena che si vuole rappresentare e interpretare, per fare in modo che il “congelamento” della situazione risulti più chiaro e meno contaminato da elementi di disturbo. D’altro canto, la strada non è, e non può essere, un set fotografico precostruito e quindi il fotografo che la riproduce è costretto a riprendere tutto ciò che ruota intorno al protagonista principale. La sua bravura consiste proprio nel saper isolare il soggetto narrante, pur in presenza di una molteplicità di elementi che a loro volta potrebbero tendere a raccontare qualcosa di differente. Al giorno d’oggi la fotografia di strada, o street-photography, è diventata uno stile fotografico molto diffuso e praticato il più delle volte in maniera poco conforme al suo reale significato, tanto che separare la buona fotografia di strada da quella raffazzonata è un esercizio simile a quello di individuare un ago in un pagliaio. Alex Webb, nato a San Francisco nel 1952, è considerato uno dei più autorevoli esponenti attualmente in vita di questo genere fotografico. Si potrebbe definire figlio d’arte in quanto anche il padre era giornalista e fotografo. Comincia col bianco e nero, seguendo la linea classica dei suoi precursori e raccontando le storie della sua America, dell’ambiente urbano dove vive. Ma il suo primo impatto avviene con l’America Latina ed in particolare con Haiti, terra nella quale ritorna più volte, e con il suo tripudio di colori. Questo fatto determina un cambiamento radicale del suo approccio, in quanto scopre nel colore un ulteriore elemento narrativo all’interno di un contesto, come quello latino-americano, nel quale le cromie ricoprono un ruolo storico, culturale e sociale, oltre che estetico. Viene investito dalla potenza delle tinte caraibiche, permeate della tragedia che si accompagna al perenne stato di emergenza, saturate dalle forze che mescolano orrore e bellezza, che fondono il dramma alla sensualità, la miseria alla vitalità. Questi elementi imprimono nella sua visione di fotografo una svolta profonda e persistente. Il colore deve diventare per lui l’elemento fondante della sua arte fotografica. Il colore deve essere forma e contenuto al tempo stesso. Il caos visibile ad occhio nudo non è accidentale ma è ritmato e controllato in un equilibrio di elementi umani, di gesti sospesi, di riflessi e di ombre. La sua prerogativa diventa così la capacità di coniugare gli elementi che si pongono davanti ai suoi occhi con una visione grafica dell’insieme, utilizzando un’accurata scelta del punto di ripresa che tiene conto sia della struttura geometrica che della struttura cromatica della scena. Il tutto tenuto insieme dalla costante partecipazione dell’elemento umano che caratterizza sempre le sue realizzazioni fotografiche. All’interno delle sue immagini compaiono quasi sempre diverse scene, ciascuna a descrivere una parte del totale. Scene che creano una composizione per piani dimensionali e che comunicano tra loro. Alex Webb è il sostenitore di una “fotografia democratica”, accessibile a tutti e fruibile da tutti. Per questo motivo, a differenza di molti altri autori che si chiudono nella propria nicchia autoreferenziale, ritiene che la diffusione e la facilità di fotografare dei giorni nostri costituisca un elemento utile a migliorare la conoscenza del mondo e le manifestazioni umane. La fotografia di strada è fatta di percorsi, di chilometri, di angoli svoltati, di occasioni pensate e cercate, di lunghe camminate o di soste prolungate in attesa di qualcosa che accada. Di visioni che vanno oltre il visibile. Di spostamenti millimetrici che determinano differenze di interpretazione impensabili. Di valutazione della luce, di contrasti immaginati con la mente e fatti propri attraverso la pellicola o il sensore della fotocamera. Di soste a volte interminabili e poi di soddisfazioni spesso inimmaginabili. Di curiosità e di capacità di individuazione e selezione dei particolari. Del potere di essere originali e di saper comprendere per poter raccontare la propria visione. La fotografia di Webb contiene tutte queste prerogative. «Mi vedo come qualcuno che parte, esplora e poi, alla fine, scopre. L’unico modo che conosco per affrontare un posto nuovo è camminare. Perché questo è ciò che fa un fotografo della strada: cammina, osserva, aspetta, parla, e poi guarda e aspetta ancora, cercando di non perdere mai la fiducia nel trovare dietro l’angolo qualcosa di inatteso, di sconosciuto, o il lato nascosto di cose che conosce già» La vita è una serie di domande, a volte molto difficili da porre e, spesso, prive di risposte… Egli scopre ed approfondisce anche il concetto di confine tra due nazioni non come elemento di divisione politica e geografica ma come un quasi limbo, una zona di transito tra due mondi. Luogo di mescolanza e complessità, di intreccio culturale e generazione di energia vitale. Il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, la città di Istambul, che funge da cerniera tra l’Occidente e l’Oriente, diventano luoghi di esplorazione della densa e diversificata umanità che li popola. Lui non racconta e nemmeno svolge il semplice ruolo di documentare la realtà, ma la trascende, la sublima attraverso la forza del colore e della complessità delle scene. Le sue composizioni riescono a dare l’impressione come fossero scene osservate mentre si è in movimento, di qualcosa che passa davanti agli occhi e che una frazione di secondo dopo non esiste più, modificata in qualcosa di diverso. Con la sua macchina fotografica percorre il mondo, dove la presenza umana è un tutt’uno con l’ambiente, dove le storie sono permeate di luci e colori esagerati, dove i segnali devono essere colti all’istante, dove le espressioni sono intrise di sofferenza oppure di gioia, di indifferenza ma anche di attenzione. Emblematica la sua fotografia in occasione del dramma delle Torri Gemelle. Anziché concentrare il suo obiettivo sui grattacieli in fiamme e fumanti, usa questo scenario come fondale alla bellezza della vita che, fortunatamente, prosegue il suo percorso ed in questo caso rappresentata da una madre che coccola il suo bambino sul terrazzo di un palazzo newyorkese. |
ALEX MAJOLI
IL TEATRO DELLA VITA
IL TEATRO DELLA VITA
Nella vita di ogni essere umano si assiste ad una costante evoluzione: culturale, psicologica, motivazionale, professionale, relazionale. Questa evoluzione è frutto dell’esperienza, del perfezionamento delle capacità di percezione della realtà e delle sue sfumature, dei suoi tratti distintivi ed anche dell’influenza delle mutazioni tecnologiche e sociali. I fotografi ovviamente non sono indenni da questo processo evolutivo che coinvolge tutte le persone, sia in positivo che in negativo. Un percorso che potremmo definire in modo molto semplice: vivere la vita. Alex Majoli, nato nel 1971 a Ravenna, è un fotografo ancora giovane eppure, per il fatto di avere iniziato il suo percorso esperienziale nel mondo della fotografia molto precocemente, ha accumulato una grande capacità di lettura e di interpretazione in questo ambito. Cosa che lo ha portato ad affermare, citando il tanto amato scrittore Pirandello: “… così è (se vi pare). Fosse per me, con le fotografie sarebbe sempre così: tu cosa pensi, cosa vedi? È così? È così. Non esiste la verità. I fotografi che producono immagini pensando di creare la verità sono dei pazzi, loro stessi se la raccontano. Le fotografie sono una serie di menzogne, ma interessanti…” Eppure, la sua è una carriera professionale scandita dalla ferma volontà, sempre corroborata da eccellenti risultati, di documentare quanto più possibile gli accadimenti più importanti e drammatici, molte volte tragici, che hanno imperversato negli ultimi decenni sulla faccia della terra. Avendo studiato arti visive, sente sua la sensibilità di percepire gli effetti che la luce determina sulla realtà oggettiva, sulle persone e sulle cose. Quindi il suo obiettivo resta quello di imprimere questi effetti sulla pellicola ottenendo di conseguenza il risultato di fermare nel tempo e nello spazio ciò che la luce ha creato in quella frazione di secondo non più ripetibile. Compie il suo primo importante lavoro recandosi nel 1994 a Leros, un’isola del Dodecaneso, per documentare la situazione dell’ospedale psichiatrico che “imprigionava” allora circa quattromila pazienti e che di li a poco sarebbe stato chiuso sull’onda lunga dell’impegno profuso dal nostro Dott. Franco Basaglia e dalla sua equipe per ottenere la chiusura dei manicomi. In questo lavoro, che diventerà il suo primo libro fotografico, al seguito dei dottori triestini durante loro “missione”, sceglie di non dare un taglio sensazionalistico e osceno alle sue immagini, bensì di raccontare in modo serio e controllato le condizioni di vita di questi internati e del lavoro svolto dai medici. Prima ancora, già nel 1989, aveva affrontato, su mandato dell’Agenzia Grazia Neri, il compito di documentare la nascente crisi balcanica che avrebbe condotto velocemente all’escalation della barbara guerra civile. Dal 1996, dopo una crisi che lo aveva portato quasi alla decisione di smettere di fare fotografia, viene ingaggiato dall’Agenzia Magnum, della quale diviene membro effettivo nel 2001, arrivando a svolgere nel 2011 l’incarico di Presidente. I suoi lavori di reportage si susseguono e coprono le zone “calde” del globo: l’Afghanistan con la caduta dei Talebani, l’Iraq della seconda Guerra del Golfo, il Ruanda con i terribili massacri tribali, la Libia al nascere della guerra civile, la Siria “opificio” di profughi impauriti ed affamati, ed altro ancora. Nonostante ciò, non si è mai identificato né in un fotogiornalista di guerra e neppure in un artista della fotografia, ma, molto più semplicemente qualifica se stesso affermando che: “… la fotografia è una questione molto soggettiva. Siccome la gente ha bisogno di etichette, mi definisco uno che fa fotografie”. Ha sempre cercato di documentare anche e soprattutto le conseguenze e gli aspetti di contorno, ma comunque altrettanto importanti e vistosi, di queste situazioni drammatiche, puntando a raccontare le storie e i volti delle vittime sacrificali dei conflitti: gli esseri umani, spesso incolpevoli e inermi, di fronte alle atrocità della guerra e della scia di violenza gratuita che essa porta con sé. Alex Majoli percorre i luoghi in cui si sviluppano le emergenze umanitarie, dove i popoli manifestano contro il potere, dove la guerra cerca di cancellare la dignità, dove la fame e la sete mietono vittime innocenti, dove gli attentati terroristici cancellano storie di vita. È a Parigi proprio nel giorno dell’attentato al Bataclan, a poca distanza dall’accaduto. Il giorno successivo documenta una città “mutilata” e lo sgomento di tanti, ma anche l’indifferenza di molti e addirittura, come spesso avviene di questi tempi, il voyerismo di troppi, che testimonia l’assuefazione verso questi accadimenti indotta dall’eccessiva esposizione mediatica. Le sue fotografie cercano di raccontare e di interpretare tutti questi stati d’animo e queste reazioni. Nel 1998 inizia a lavorare ad un progetto dal nome “Hotel Marinum”. Il suo è un impegno finalizzato ad esplorare gli ambienti delle città portuali di tutto il mondo, rappresentando i volti delle persone che popolano questi contesti di “margine”, di confine e di passaggio. Luoghi che possono essere brulicanti di vita ed al tempo stesso privi di stabilità vitale, espropriati di situazioni permanenti. Spazi, danneggiati spesso dal degrado, percorsi da gente che passa ma non si ferma, impregnati di sogni possibili ma spesso irrealizzabili. Il filo rosso che percorre il lavoro fotografico di Majoli, in special modo negli anni della sua piena maturità e sensibilità, è la visione “teatrale” di ciò che osserva e fotografa. Lui ritiene che non sia possibile distinguere il “fatto” dalla “visione personale”. La fotografia, di per sé, non è “tutta” la realtà che si svolge in quel momento ma è solo una parte di essa, ne discende quindi che uno scatto fotografico non può essere pura verità, ma ne è un tentativo di rappresentazione. La realtà e la visione del fotografo si intersecano e si confondono in qualcosa che diventa “teatro della vita”. L’uso attento e voluto di luci artificiali in una circostanza reale e drammatica determina nella scena connotazioni di intensità teatrale. I soggetti diventano attori inconsapevoli di una recita sul palcoscenico della loro stessa vita. Noi che guardiamo queste immagini ne siamo spettatori e quindi, come scriveva Pirandello, “…così è, se vi pare…” |
NEW YORK
IMPRESSIONI DI UN BREVE VIAGGIO New York, la cosiddetta Grande Mela, una delle tante “Babele” dell’era moderna. Ho appena posato i piedi sull’asfalto e già il suo flusso mi avvolge, mi permea e mi trascina. Le aspettative si mescolano e si confondono con i déjà-vu mediatici. Ho l’impressione di conoscerla già questa città, senza esserci mai stato, ma in effetti non la conosco affatto.
Il mio albergo è a Times Square, il “torsolo” di questa immensa mela, il suo nucleo pulsante, frenetico e insolente. Qui la Babele si manifesta nella sua carne, nei linguaggi, nei rumori, negli odori, nelle sue luci e nel suo incessante vibrare. È un “ammasso” di vita, è un organismo sociale palpitante, è simbiosi tra esseri umani di tutte le razze, di tutti i colori, di tutte le nazionalità. La città, e Times Square in particolare, è tutto questo. Simbolo ed emblema della multiculturalità, è diventato il luogo in cui un gran numero di esseri umani provenienti da tutto il mondo hanno la possibilità di convivere e mescolarsi, interagire o respingersi. La sera, le luci led dei tabelloni pubblicitari mi abbagliano e costringono la mia mente ad abbeverarsi alla fonte del “Dio Mercato”. Pur controvoglia, e nel pieno disinteresse, sono obbligato a guardare! Tuttavia, ciò che attira oltremisura la mia attenzione sono le persone, la gente di tutti i colori e di tutte le lingue che riempie gli spazi, li percorre zigzagando, incespicando, si ferma ad osservare e fotografare in modo compulsivo, quasi in un atteggiamento di concupiscenza: Times Square rappresenta un’attrazione ludica, a tratti sessuale. Questa città è anche il sinonimo di altezza, grattacielo, vertigine. Per un turista, tra le tante e varie cose da fare a New York ci sono le “salite” all’ ultimo piano dei famosi palazzi che per decenni sono stati gli unici al mondo a sfidare le nuvole. L’Empire State Building, il Top of The Rock (Rockefeller Center) e ora la “scheggia di cristallo” dello “One World”, che ha sostituito le Torri Gemelle di triste memoria, ci ricordano che questa Grande Mela è soprattutto il simbolo della corsa verso l’alto come dimostrazione di potenza economica e strenua volontà di dettare le regole al mondo. Da lassù tutto sembra più piccolo, quasi un immenso plastico. I flussi di auto che percorrono le strade lunghe e rettilinee sembrano distanti e pressoché irraggiungibili. La sensazione di volare è quasi realistica. Qui è tutto grande, proiettato in altezza e larghezza, smisurato rispetto alle proporzioni cui siamo abituati. Si rischia di farsi venire il torcicollo percorrendo il suo reticolo regolare di strade. In questa città non ci si può perdere se si conoscono i punti cardinali o si ha con sé una bussola. Tutto segue l’orientamento: est/ovest (street) e nord/sud (avenue). Il traffico è continuo e ininterrotto, trambusto di clacson e rombo di motori, sirene di ambulanze ed auto della polizia solleticano in permanenza l’udito. Non bisogna farsi sopraffare dalla sollecitazione dei sensi. Anche gli odori sono esagerati: dalle grate degli impianti di aerazione ne escono di qualsiasi tipo, devo resistere alla tentazione di sigillare le narici. Poi arriva il momento della quiete, spazi verdi a perdita d’occhio. Central Park mi si offre come un grembo materno che accoglie un bimbo alla ricerca di riparo dall’uomo cattivo. Le sue verdi radure, i boschetti e i laghetti mi rassicurano, come oasi in un deserto. Pur continuando a vedere il profilo dei grattacieli, questo parco si presta alla ricerca di pausa, di ristoro dei sensi. Il cinguettio degli uccelli e il riverbero di musiche e canzoni suonate da artisti di strada mi cattura. Sospendo il mio giudizio sulla città. L’esperienza del tramonto visto dal fiume Hudson assume una connotazione onirica. La luce del crepuscolo si riflette sui cristalli di Manhattan. Le geometrie della città diventano vive, si muovono al cambiare delle prospettive e dell’inclinazione del sole. Le nuvole incombenti sfidano le punte dei grattacieli. È pura meraviglia quella che si spiega davanti ai miei occhi, una meraviglia artificiale ma non per questo inferiore agli incanti della natura. L’uomo sa e può fare anche questo, ma purtroppo sa fare anche altro. Percorrendo il Ponte di Brooklyn partendo dall’omonimo quartiere in direzione dell’isola di Manhattan si respira vento. Sotto di me il nastro incessante del traffico. I pilastri e le funi d’acciaio mi rassicurano. Questo ponte, costruito nel 1883 è solido, immutabile nel tempo. Due chilometri di ingegno e coraggio costruttivo, un manufatto che contiene il potere immaginifico di chi ha voluto e costruito questa città, che a distanza di oltre cento anni stupisce ancora. New York è un organismo multiforme, è una chimera nella quale convivono anime differenti, che si mescolano e si permeano l’un l’altra e che pulsano all’unisono. Attraversi una strada e sei in Olanda, ne percorri un’altra e sei in Italia, ancora più avanti sei a Londra o in Cina. Questi ambienti si guardano e si confrontano ogni giorno. |
Ognuno con le sue caratteristiche architettoniche e culturali. China Town è una città dentro la città, enclave cinese in America. Le insegne dei negozi sono scritte in cinese, la lingua parlata è cinese, nei negozi si vende merce cinese, i volti e gli sguardi sono quelli di cinesi: sembra proprio di essere laggiù, ma i grattacieli all’orizzonte mi ricordano dove mi trovo realmente.
Broadway è un nome che richiama l’America degli spettacoli, delle insegne luminose e accattivanti, degli attori famosi. In effetti è così, ma Broadway non è solamente una strada, è un’arteria che pompa sangue e vitalità in questa città, scopri che è la via più lunga di New York, che la attraversa da cima a fondo, che quindi ne conosce tutti i volti e gli ambienti, da quelli degli affari a quelli del passeggio, da quelli dello shopping a quelli del relax residenziale. Più in là c’è la Quinta Avenue, la parallela che corre sul lato est di Manhattan. Questa è la via del richiamo estetico ed iconico delle grandi firme. New York è la metropoli delle parallele che si incontrano, dove le geometrie urbanistiche sono sostanza della sua comunità. Strade sopra e strade sotto. La Subway, un’altra dimensione dello stesso luogo, un mondo sotterraneo pieno di vita e di attrattive umane, di coreografie sociali. Il Metropolitan Museum è un tempio dedicato all’arte ed alla storia. Sacrilegio non visitarlo, anche solo per attraversarne una parte. La sua offerta vastissima di opere artistiche e di beni archeologici deve essere affrontata con misura ed organizzazione. Opere pittoriche e scultoree, oggetti d’arte di ogni epoca, sarcofagi egizi ed altro ancora sono lì per essere ammirati e per nutrire la voglia di conoscere. Cosa mangiare! Non sono di quelli che vanno all’estero a cercare gli spaghetti, ma qui è veramente difficile nutrirsi se non si prende in considerazione la cucina d’importazione. L’offerta di cibo è vasta, ma in sostanza la cucina americana offre quasi solo hot dog, bistecca, costine e hamburger, pancake, salsicciotto e uovo strapazzato. Tutto il resto è cucina d’oltre confine adattata, oppure cucina etnica. Non mi piace l’idea di essere qui per mangiare tailandese o cinese, messicano o italiano. Il problema reale è che volendo essere fedeli al cibo locale rischio seriamente di intossicarmi di salsine e patatine fritte. Il conto alla fine è comunque quasi sempre salato. Tra calcoli di tasse e di mance si finisce per capire quanto si spende solo dopo aver pagato. Harlem, adesso un’esperienza sublime si offre alle mie orecchie ed ai miei occhi. L’anima e il cuore si imbevono di suoni e di gesti. I canti sgorgano come cascata impetuosa dalle bocche di donne e uomini dalla pelle nera in una mattina che per gli abitanti di Harlem è una comune domenica di preghiera. La funzione religiosa non è una semplice e monotona ripetizione di orazioni e di letture ma è un dialogo fitto e nutrito tra i membri della comunità. I loro cori sono l’apoteosi ed il sigillo di questo intreccio di vite che, dall’epoca della liberazione dalla schiavitù, hanno condiviso destini e ed aspirazioni. Il mio spirito si è unito al loro, sono appagato dalla potenza della loro celebrazione. Non si può evitare di piangere al cospetto dei fantasmi delle due Torri abbattute dal gioco malvagio del terrorismo o di chissà quale altro terribile disegno. Le due enormi voragini che oggi hanno preso il loro posto sono splendide e orribili allo stesso tempo. Il monumento alla memoria delle migliaia di vittime innocenti elenca uno per uno i nomi di questi poveri caduti. Qua e là dei fiori posati sui nomi, bianchi per le donne, rossi per gli uomini. Sussurrano di una ricorrenza di compleanno che non può più essere festeggiata ma solo commemorata. Questa città si affronta di corsa, con il fiato sospeso per l’ansia di non riuscire a vedere tutto ciò che offre nei pochi giorni che si hanno a disposizione. Ma è una gara persa in partenza. Le distanze, unite alla ricchezza della sua offerta, sono un ostacolo impossibile da valicare. New York è una città odiosamente stressante ma spietatamente bella. È una città che sa regalare attrattiva in ogni sua espressione. È una metropoli caotica, ribollente che si fa fatica ad amare a prima vista ma che si finisce per amare profondamente quando la si è lasciata. |
LE NUVOLE
Le masse nuvolose sono una combinazione di forme, colori e luci in grado di arricchire un paesaggio oppure di formare esse stesse un paesaggio. Il loro continuo mutare e l'evoluzione delle loro forme può costituire un'enorme fonte di spunti creativi e compositivi. Un paesaggio che in una giornata serena o uniformemente grigia può sembrare banale, riesce invece a diventare interessante in presenza di un cielo ricco di nuvole, siano esse cirri o cumuli che preannunciano temporale. I periodi migliori per le formazioni nuvolose sono la primavera e l'inizio dell'autunno. In questi periodi climatici, seguendo opportunamente le previsioni metereologiche si possono cogliere notevoli occasioni per fare splendide fotografie. Il primo mattino e il tardo pomeriggio sono i momenti migliori della giornata grazie alla luce bassa del sole che valorizza le forme delle nuvole. I momenti immediatamente precedenti e subito successivi ad un temporale offrono opportunità imperdibili grazie ai forti contrasti di luce che si alternano nel cielo e che creano effetti drammatici. Il sole che buca le nuvole oppure, nascosto da queste, crea aloni di luce intorno ad esse dona spunti per composizioni dall'aspetto onirico e surreale. E' molto importante, per questo genere di fotografie, determinare la corretta esposizione che eviti di "bruciare" le alte luci ed al tempo stesso consenta di valorizzare adeguatamente le zone più in ombra. In quest'ottica è opportuno puntare l'esposimetro sulle zone più luminose della nuvola. Considerando anche il movimento delle nuvole, qualora si voglia ottenere un'effetto di mosso, si potrà lavorare sul tempo di esposizione agendo opportunamente sul diaframma per allungare i tempi di scatto, oppure utilizzando filtri a densità neutra. I luoghi più indicati per ottenere effetti scenografici di un certo livello sono generalmente le zone di montagna che, oltretutto, offrono scenari naturali che integrano lo spettacolo costituito dalle nuvole. Ciò non vuol dire che anche la campagna, la città o il mare non possano offrire spunti significativi, basta avere la pazienza di aspettare il momento opportuno nel luogo più congeniale. E' utile inoltre considerare che l'inserimento nella composizione di oggetti in primo piano (in silhouette o definiti) serve a dare profondità e senso delle proporzioni all'immagine: pur facendo in modo che le nuvole costituiscano il soggetto principale dello scatto, vale sempre la pena di dedicare una parte dell'immagine ad elementi di completamento che possono essere alberi, colline, persone, barche, case, eccetera eccetera. Per quanto riguarda gli obiettivi da utilizzare, la scelta va fatta ovviamente in funzione del tipo di immagine che si vuole realizzare: un grandangolo servirà per dare la sensazione dello spazio e delle distanze, un teleobiettivo sarà utile per cogliere i particolari o per creare prospettive schiacciate. VEDERE L'INQUADRATURA
Guardando le immagini scattate dai più grandi fotografi della storia della fotografia, ci rendiamo conto di come siano esistiti ed esistano ancora dei grandi talenti, o, se vogliamo, anche dei “geni” della fotografia, i quali hanno saputo interpretare il loro mestiere o la loro passione in maniera geniale ed assolutamente originale dando prova, in tempi non sospetti nei quali la pellicola era il “verbo”, di saper costruire delle immagini in maniera intuitiva ed istintiva. Da ciò si può dedurre che esistano persone che hanno la dote naturale di saper cogliere immediatamente una buona composizione fotografica, la maggioranza delle persone, però, deve fare i conti con la sperimentazione e l’osservazione attenta della realtà e dei soggetti per riuscire a maturare la capacità di “comporre” in maniera sufficientemente valida e tale da coinvolgere emotivamente l’osservatore. Indipendentemente dalla macchina fotografica che ciascuno ha a disposizione, la sperimentazione e l’esercizio, peraltro ai giorni nostri facilitati dal digitale, sono oggi alla portata di mano di tutti. Intanto bisogna cominciare ad immaginare il mondo che abbiamo davanti come fosse a due dimensioni. Girando il nostro sguardo a 360 gradi dobbiamo saperci soffermare ed isolare alcuni aspetti di ciò che abbiamo di fronte e immaginare questi nella loro essenza, non più come parte di un insieme, ma come elementi che costituiscono essi stessi un’identità ed una realtà distinta dal tutto. Dobbiamo sapere escludere ciò che è utile escludere e comprendere ciò che è bene includere al fine di rappresentare la nostra idea interpretativa di ciò che abbiamo davanti. L’elemento essenziale della composizione può essere rappresentato da un’oggetto, da uno o più colori, da linee, da una forma, oppure anche da qualcosa che non c’è ma del quale vogliamo rimarcare l’assenza. Guardiamo la realtà intorno a noi anche attraverso il mirino della fotocamera, stiamo attenti a valutare se alcuni elementi della scena sono completamente rappresentati oppure se rischiamo di tagliarne una parte, proviamo a valutare se includendo nell’inquadratura degli elementi che possono “incorniciare” il soggetto principale la composizione ne trae beneficio. Usiamo lo zoom per isolare meglio alcuni aspetti della scena o per evidenziarli maggiormente attraverso un uso opportuno del diaframma. Le famose regole compositive (i terzi, le diagonali, le linee guida, la sezione aurea, eccetera) devono diventare parte integrante del nostro modo di osservare il soggetto fotografico, devono entrare a far parte della nostra interpretazione visuale della realtà. L’acquisizione di quelle nozioni teoriche e l’esperienza sul campo devono dare luogo ad una istintiva immediatezza nella valutazione del tipo di composizione migliore per l’immagine che vogliamo realizzare. Il soggetto non è ciò che ci sta davanti, ma è ciò che sta nella nostra testa, nel nostro cuore e nella nostra anima. GUARDARE GLI ALTRI FOTOGRAFARE
Generalmente l’approccio alla fotografia da parte della stragrande maggioranza delle persone trae origine dalla voglia di avere dei bei ricordi delle vacanze passate con la propria famiglia o con i propri amici, oppure dalla necessità di immortalare le immagini di un evento importante della nostra vita o che ci ha visti spettatori o testimoni. Questa non si può definire passione per la fotografia ma semplicemente voglia di raccogliere immagini e conservarle per una futura visione al fine di avere prova visiva dei ricordi relativi ai vari momenti della propria esistenza. Arrivati ad un certo punto alcuni “fotografi per necessità” cominciano ad appassionarsi all'idea di costruire delle immagini che non siano solo dei documenti d’archivio ma che rispondano anche alle proprie voglie creative ed alle esigenze interpretative del mondo che li circonda. Ecco che avviene l’evoluzione della specie: non più semplici scatti, ma realizzazione di immagini che si possono ricondurre a canoni estetici e compositivi definiti ed alla voglia di “comunicare” qualcosa agli altri non attraverso le parole ma usando i colori e la luce. A questo punto sorge il desiderio di “imparare a fotografare”. La macchina fotografica diventa uno strumento complesso perché si scopre che non ha più solo un pulsante per accendere e spegnere ed uno per scattare ma ha anche una serie di altre funzioni delle quali prima non ci si era mai domandati l’utilità. Quindi ci si concentra e si comincia ad apprendere qualcosa di più dal punto di vista tecnico rischiando però di perdere di vista l’essenza della fotografia e cioè l’immagine fotografica, che è il prodotto dell’azione meccanica unita alla volontà ed alla capacità di interpretare una scena, facendola diventare qualcosa di diverso dalla realtà esatta che abbiamo di fronte. Allora, o il fotografo in fieri ha un talento naturale che fino ad allora è rimasto inespresso, oppure deve vestire i panni del buon artigiano che per plasmare la materia prima del suo lavoro deve imparare a conoscerla bene, anche e sopratutto guardando e studiando il lavoro che hanno fatto altri artigiani della fotografia, o meglio ancora, professionisti ed artisti, prima di lui. Arriviamo al dunque: per fare una buona fotografia di un tramonto non basta solo assistere ad un bel “calar del sole” ma è necessario, oltre a saper usare la fotocamera, aver visto prima tante altre fotografie di tramonto scattate da fotografi esperti ed averle esaminate e capite dal punto di vista della composizione, cercando di apprendere la tecnica necessaria per rendere opportunamente le tonalità cromatiche e i contrasti di luce. Vedere i lavori degli altri fotografi ci serve a comprendere come a fronte di uno stesso tipo di soggetto si possano realizzare immagini completamente diverse dal punto di vista espressivo, comunicativo ed estetico. Se ci interessa veramente imparare a creare fotografie sempre più interessanti, dobbiamo guardare e studiare ciò che hanno fatto i migliori fotografi prima di noi , impregnando la nostra memoria visiva con loro migliori immagini ed integrando le nostre conoscenze di base con il loro talento. L’istinto e la fantasia creativa non possono fare a meno dell’esperienza, della conoscenza e dello studio. |
NONSOLOCARTOLINE
Chi va in vacanza senza portare la macchina fotografica scagli la prima pietra! Le vacanze sono un momento ideale per fare belle fotografie, potendo visitare luoghi, vedere gente e vivere situazioni in tutta serenità' e spensieratezza. Ovviamente non tutti hanno la velleità' di portare a casa delle fotografie "memorabili" dei posti visitati e spesso si accontentano di semplici foto ricordo che il più' delle volte sembrano brutte cartoline. Avere la possibilità' di frequentare per diversi giorni dei luoghi particolarmente interessanti ci pone nelle condizioni di coglierne l'essenza sotto diversi punti di vista: paesaggistico, luci e colori, atmosfere, gente, situazioni, cultura, eccetera. La conoscenza di questi elementi ci deve mettere in condizioni di rappresentare attraverso le nostre fotografie gli aspetti più' interessanti del luogo sia sotto l profilo estetico che emozionale. Alcune cose che a prima vista possono sembrare di scarso interesse si possono rivelare essenziali per comporre delle immagini d'impatto che vadano ben oltre la semplice foto ricordo. L'angolazione di ripresa o un taglio più o meno originale e dinamico possono fare la differenza. Facendo mente locale su come nelle varie ore della giornata la luce modella l'ambiente circostante si può arrivare a raggiungere risultati eclatanti. Ovviamente, per puntare ad un buon risultato, e' preferibile evitare di scattare nelle ore centrali della giornata, quando la luce del sole è molto intensa nel corso di giornate limpide, utilizzando invece questi momenti del giorno per "studiare" i luoghi e immaginare le possibili composizioni. Bisogna cercare di cogliere le caratteristiche dell'ambiente umano frequentando i luoghi popolati dagli abitanti del posto, per potere riprendere gli aspetti più interessanti e descrittivi. Non esitiamo ad includere anche la gente nelle nostre inquadrature, soprattutto in quelle urbane, senza aver paura di cercare l'intesa o domandare in maniera cortese ai potenziali soggetti il permesso di scattargli una foto, sarà molto più facile ottenere degli assensi piuttosto che dei dinieghi, l'importante è che poi queste persone assumano una posa naturale e continuino a fare le loro cose senza badare a noi. Fotografiamo le persone tenendo la fotocamera alla loro altezza. Se queste sono sedute o accovacciate per terra abbassiamoci anche noi. Per evitare che le persone si mettano in posa proviamo a scattare da lontano o senza guardare nel mirino, in questo caso impostando opportunamente i parametri della fotocamera (focale da 35 mm in giù, diaframma relativamente chiuso per avere una maggiore profondità' di campo e facilitare la messa a fuoco, tempo di scatto veloce, quindi ISO adeguati alla necessità', esposizione e punti di messa a fuoco centrale). Divertiamoci a fare foto "strane", con angolazioni e tagli poco usuali, anche il controluce può aggiungere "appeal" ai nostri scatti, purché gestito adeguatamente. Usiamo le forme ed i colori dell'ambiente che ci circonda per dare sostanza alle immagini, soprattutto se sono luoghi non abituali per noi (paesi esotici, architetture inconsuete, colori vivi , cieli "movimentati"....). Al nostro ritorno a casa riguardando le foto scattate ci sembrerà di aver fatto un viaggio di reportage anziché' un'ordinaria vacanza. IL COLORE COME SOGGETTO
Capita di essere attratti da un soggetto fotografico non tanto per ciò che questo rappresenta, la sua forma o la sua posizione, quanto per i suoi suoi colori che emotivamente suscitano in noi un'emozione. Quante volte passando attraverso le bancarelle di un mercato ci siamo fatti catturare dalla varietà e bellezza dei colori della frutta esposta sui banchi. L'elemento cromatico può diventare spesso un ottimo tema espressivo e di composizione. Volendo realizzare una fotografia che abbia il colore come soggetto principale occorre fare attenzione a che non vi siano all'interno dell'immagine troppi colori, semplificando il più possibile la lettura dell'immagine e non rischiando di confondere le idee all'osservatore (uno o due colori al massimo su sfondo possibilmente neutro). Il contrasto cromatico è un elemento importante per far si che la fotografia abbia un impatto sulla percezione visiva: una ripresa che "riempia" a sufficienza l'inquadratura con il colore in questione, oppure un soggetto colorato che si distingua in maniera efficace sullo sfondo, magari sfocato, l'abbinamento di colori che non facciano a botte tra di loro. Anche uno o più oggetti relativamente banali, possono diventare "importanti" ai fini della costruzione di un'immagine basata sul colore. Un'inquadratura molto stretta può dare luogo alla creazione di immagini astratte che diventano attraenti per la loro forte valenza cromatica. Una luce diffusa su superfici molto colorate aiuta ad evitare una sovrasaturazione dei colori che, qualora non desiderata, può nuocere al risultato estetico della composizione. Più semplificata è la composizione, di maggiore efficacia è il risultato: le geometrie e le forme devono risultare ben definite e di facile lettura, l'equilibrio di forme e colori costituisce un elemento essenziale per la buona riuscita dello scatto. L'angolazione di ripresa può costituire una chiave di lettura importante per ciò che vogliamo esprimere: da uno stesso soggetto ripreso da punti di osservazione differenti nascono immagini diverse. |
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